Le elezioni del 1996 per l’elettore medio di centrosinistra italiano sono state l’unica grande vittoria alle elezioni politiche. A questo avvenimento è stata poi legata una fantasiosa narrazione che ha egemonizzato tutto il campo progressista fino a trasformare quel momento in un avvenimento quasi mitologico e pertanto indiscutibile (come lo sarebbe stato 10 anni dopo in forme analoghe lo strumento delle primarie). E, si sa, i miti sono duri a morire, anche di fronte ai numeri.

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Partiamo dalla narrazione: le elezioni del 1996 “sono state la vittoria de l’Ulivo, della nuova politica che ha saputo andare oltre i vecchi partiti”, “la vittoria di Prodi contro gli apparati dei partiti, infatti poi D’Alema lo ha fatto fuori”, “un centrosinistra rinnovato e vincente che ha saputo andare oltre i vecchi giochini e le vecchie manovre di palazzo”.

Queste affermazioni (rese qui in maniera molto semplificata) sono poi state alla base di un orientamento che si è largamente diffuso nei pensieri dell’elettore medio e di buona parte anche dei gruppi dirigenti dei partiti del centrosinistra prima e del Partito Democratico poi, grazie ad una ricostruzione storica di stampo “scalfariano” propagandata da tutto il gruppo Espresso e soprattutto dal popolare giornale “La Repubblica”. Da ciò poi deriva automaticamente la santificazione della figura di Romano Prodi che da dirigente pubblico, presidente dell’IRI e ministro del quarto governo Andreotti è invece oggi considerato come l’uomo della società civile che finalmente scalzò dal potere le burocrazie dei partiti.

Ora chiarendo che non ho nulla contro Prodi e nemmeno nulla contro il giornale La Repubblica, vorrei però confutare questo senso comune, questa opinione diffusa utilizzando un semplice strumento, i risultati delle elezioni politiche del 1996.

La coalizione guidata da Romano Prodi ha conseguito 16.265.985 voti (pari al 43,39%) considerando non solo i voti de l’Ulivo e quindi del Partito Democratico della Sinistra, Popolari per Prodi, Lista Dini, Verdi, ma anche quelli di Rifondazione comunista partito col quale l’Ulivo strinse un patto di desistenza. La coalizione del Polo per le Libertà (Forza Italia, Allenaza Nazionale e CCD-CDU) arrivò a quota 15.772.203 (pari al 42,07). La Lega Nord (che si presentava da sola) invece raggiunse quota 3.776.354 (10,07%).

Qui dovrebbe apparire anche al più disattento osservatore che la somma di Polo per le Libertà e Lega Nord (partiti che in tutte le altre elezioni politiche sono semre stati alleati) supererebbe il 54% dei voti. Così come appare chiaro poi contando i seggi alla camera dei deputati che la coalizione de l’Ulivo (tra maggioritario e proporzionale ha raggiunto quota 287 deputati) ha potuto avere una maggioranza parlamentare solo gazie all’accordo di desistenza con Rifondazione Comunista (che ha eletto 20 deputati in quota proporzionale e 15 nei collegi sotto l’insegna dei “Progressisti” con l’appoggio de l’Ulivo).

Dalla lettura pura e semplice di questi due dati fondamentali mi piacerebbe abbozzare un racconto alternativo di quella vittoria del centro-sinistra e una lettura diversa di quella che è ormai (ahimè) passata.

La vittoria di Prodi non è stata affatto una vittoria contro i partiti e gli apparati, semmai al contrario egli ha potuto vincere grazie ai partiti che lo hanno sostenuto (ricordiamo che quell’anno il PDS col 21,06% è stato il partito più votato del Paese) ed ha potuto governare grazie all’alleanza politica con Rifondazione comunista. Ma soprattutto D’Alema dovrebbe essere ringraziato da Prodi, perché senza la separazione che c’è stata tra Polo e Lega (alla quale l’allora segretario del PDS ha lungamente lavorato, prendendosi ovviamente tutte le critiche del caso per i 15 anni successivi) l’Ulivo quelle elezioni non le avrebbe mai vinte. Quini non c’è stata alcuna vittoria “contro” le manovre politiche, esattamente al contrario è stata una vittoria ottenuta grazie a due fondamentali manovre politiche: la separazione di Polo per le Libertà e Lega Nord da una parte e l’alleanza con Rifondazione dall’altra.

Poi verrà la caduta del Governo ad opera di Rifondazione e l’imputazione di questo fatto a D’Alema e tutta la retorica anti-dalemiana che ne è seguita.

Ma questo fatto e la lettura di questi avvenimenti sono a mio avviso alla base di alcune storture che ancora permangono in buona parte della classe dirigente del PD di oggi, cioè, in soldoni l’idea (propagandata da buon parte di stato dirigente prodiano e veltroniano) per cui ci sarebbe una società civile guidata da Prodi (o chi sarà il suo successore) grazie alla quale il centrosinistra ha potuto e potrà vincere in futuro e un Apparato guidato da D’Alema che è causa di tutti i mali e le sconfitte della sinistra da sempre.

Come si è cercato di dimostrare attraverso i numeri, non può esserci nulla di più falso di questo. Fino a quando il PD non avrà il coraggio di guardare al recente passato e alla breve storia della cosiddetta seconda repubblica con onestà, provando a lasciarsi alla spalle letture mitologiche, probabilmente non riuscirà a fare i conti con se stesso e darsi un’identità chiara e definita, una ragione sociale e una strategia politica.

Non ci sono partiti, burocrati o apparati da abbattere, tutto ciò che c’era è già stato abbattuto da tempo. Ora c’è da ricostruire, un partito, un impianto e una cultura politica.

Pierino

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Primarie: le falsità di giornali e TV, la realtà dei numeri

Pochi giorni fa si sono svolte le consultazioni per l’elezione del segretario del Partito Democratico, i giornali titolano “trionfo di Renzi” “grande affluenza”. Ora, senza nulla togliere al risultato di Matteo Renzi (pealtro mediaticamente molto più presente degli altri due candidati, da più di un anno a questa parte), il dato della partecipazione dovrebbe farci riflettere. Infatti è la prima volta che le consultazioni per l’elezione del segretario del PD scendono sotto la quota dei 3 milioni di partecipanti. Nel 2007 erano stati 3 milioni e 550 mila, nel 2009 3 milioni e 100 mila, questa volta come annunciato da Gulielmo Epifani si arriverà “quasi a 2 milioni e 900 mila” ciò sigifica che ci fermeremo ad una quota intorno ai 2 milioni e 850 mila, cifra sostanzialmente identica a quella del secondo turno delle primarie del 2012, ma quel giorno il “Fronte Renziano” si stracciava le vesti contro un PD che aveva “respinto la gente ai seggi” spaventato dalla possibile partecipazione. Questa volta invece “Le primarie sono aperte” recitava lo slogan, il responsabile comunicazione era renziano, quindi per giornali e telegiornali “è stato un successo di partecipazione” “una grande prova di democrazia”, mentre invece quelle dell’anno precedente erano state primarie “chiuse”. In realtà il regolamento era di fatto lo stesso e chiunque dichiarasse di essere elettore (della coalizione nel 2012 del PD quest’anno) poteva partecipare al voto. Ma tra la prima e la seconda situazione l’unica differenza era l’esito: nel 2012 sgradito ai media e ai loro finanziatori, questa volta invece assai gradito e da qui la differenza sostanziale nel come sono stati raccontati i fatti.

Il trionfo di Renzi in termini numerici assoluti risulta assai inferiore ai risultati di Prodi del 2005 (3 milioni e 200 mila) e di Veltroni nel 2008 (2 milioni e 700 mila), e non credo ci sia bisogno di raccontare come poi sono andate a finire le elezioni per il primo (vittoria per 24000 voti) e per il secondo (la più grande sconfitta per la sinistra sulla destra in termini di distacco tra le coalizioni). Ma oggi la grande stampa e i sostenitori festanti del sindaco di Firenze brindano già al nuovo leader che spariglierà tutto e vincerà le prossime imminenti elezioni. Ah si, perché a differenza delle scelte che nella realtà sta facendo Renzi, gli elettori che lo hanno votato pensano che faccia cadere il governo Letta per andare rapidamente ad elezioni. Ovviamente noi ci auguriamo che Renzi ed il centrosinistra da lui guidato possano vincere le elezioni, altrimenti saranno Grillo o Berlusconi a governare e certamente sarà peggio, ma diciamo oggi che non sarà una passeggiata.

 

Ma oltre al discorso dei numeri resta un ragionamento politico. Ora Renzi è il segretario nazionale del Partito Democratico dopo che la sua truppa di parlamentari ha dato una mano per segare Marini prima (basta ricordare la frase di Renzi proprio nei confronti di Marini detta poco dopo che il partito scelse quel nome) e Prodi poi (anche qui la prima dichiarazione dopo la non elezione fu di Renzi…), con l’unico obbiettivo di far fuori Bersani. Questo fa pensare, fa pensare molto, a ciò che la politica e il PD possono diventare in futuro, pardon, che sono diventati già da tempo. Uno spazio senz’anima, senza più sentimenti autentici, dove imprenditori della politica vecchi e nuovi corrono una loro partita personale, pronti a cambiare idea a seconda del sondaggio del giorno prima o del giorno dopo e pronti soprattutto a pugnalare chiunque pur di arrivare un giorno ai loro obbiettivi. Il senso collettivo della politica è ormai un residuo del ‘900, facciamocene una ragione. Loro, che pugnalano alle spalle i propri compagni di partito, che passano da una corrente all’altra come si passa in autostrada da una corsia all’altra a seconda di come scorre il traffico, sono il nuovo.

 

Poi c’è la scelta sbagliata per eccellenza quella delle primarie. Il PD è un partito di centrosinistra che ha di fatto deciso di farsi selezionare la classe dirigente da giornali e televisioni, perché anche se ci raccontate che la partecipazione è aperta ai cittadini, in realtà chi ha più spazio sui media acquisisce un enorme vantaggio competitivo sui suoi sfidanti, e non raccontiamoci nemmeno la favola dei media indipendenti, perché giornali e telegiornali rispondono a precisi interessi dei loro editori (che non sono certo gli stessi dei lavoratori e dei pensionati). Quello che i media decidono che deve essere presentato meglio viene ben presentato e le sue possibilità di vittoria aumentano. Ma questo è l’errore più grande perché con questa scelta abbiamo sostanzialmente deciso di essere un partito subalterno al presente, che perde ogni possibilità di critica verso il pensiero maggioritario oggi. Perde quindi ogni ambizione verso la costruzione di una qualsiasi visione collettiva intorno alla quale fare vivere una battaglia politica per cambiare il futuro. Dopo il confronto televisivo si discuteva di come erano vestiti i candidati e del numero di battute ben riuscite che sono stati in grado di fare, e nulla veniva raccontato della visione di partito che avevano in mente e per quale tipo di società si volevano battere. Questa è la politica moderna, che impone a tutti il format nel quale muoversi, ma accettare il format significa in ultima istanza anche accettare la società così com’è, mentre noi siamo nati e lottiamo per cambiare la società del presente.

Dopo la vittoria di Renzi quindi è tutto finito? No, sarà tutto finito quando le persone che la pensano in questo modo perderanno la voglia di lottare per realizzare il proprio sogno. Noi il sogno di costruire un pensiero politico autonomo e critico verso il presente non smetteremo mai di averlo e lottare per realizzarlo.

Inizia il conflitto, compagni, quello vero.

 

Pierino

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A 2 anni dall’attentato di Utoya, il ricordo e una riflessione.

AUF

 

Eravamo in molti ragazzi sotto il tendone dello spazio dibattiti della festa nazionale GD di Bosco Albergati, quel venerdì, quando Fausto Raciti prese in mano il microfono prima dell’attesissimo (e poi molto interessante) dibattito tra Massimo D’Alema e Miguel Gotor. Ci informava del fatto che in Norvegia, ad Utoya, dove si stava tenendo la festa nazionale dei Giovani Laburisti Norvegesi (AUF) una persona (che poi si scoprirà essere un militante di estrema destra) era entrata armata ed aveva fatto una stage uccidendo decine e decine di ragazzi, militanti e dirigenti dell’AUF. Nei volti dei militanti presenti in quel momento al dibattito si notò subito l’angoscia al solo pensiero dell’accaduto. Poi come tutte le feste abbiamo dovuto continuare i nostri lavori.
In quei giorni Walter Veltroni scrisse su l’Unità che la nostra generazione, avrebbe dovuto unirsi a quel cordoglio e portare avanti una battaglia su quanto era accaduto. Il giorno dopo sempre il nostro segretario nazionale ha potuto rispondere con orgoglio che lunedì una delegazione di 120 Giovani Democratici provenienti da tutta italia era partita per andare alla festa della IUSY (International Union Socialist Youth) dove da tutto il mondo provenivano ragazze e ragazzi che come noi fanno politica in organizzazioni giovanili di partito dei partiti socialisti, socialdemocratici e democratici. Perché qualche fanatico neo-nazista potrà anche aver ucciso decine e decine di giovani militanti, ma le idee di giustizia, eguaglianza, integrazione sociale e culturale non moriranno mai, se in ogni parte del mondo ci saranno ragazzi pronti a lottare per quei valori. Raciti scrisse che per dirla con le parole di Franco Fortini “chi ha compagni non morirà”.
Lo IUSY festival si aprì il 25 con una straordinaria fiaccolata nella quale si sono letti nomi e cognomi di quei ragazzi vigliaccamente uccisi e si sono ricordati i motivi per cui siamo qui a fare politica tutti i giorni dell’anno. Poi le canzoni suonate e cantate tutti assieme in tutte le lingue dei partecipanti. Bella ciao, che pensavamo essere una canzone della resistenza italiana, abbiamo scoperto essere una canzone conosciuta e cantata da tutti. Infine l’internazionale che va da se è la canzone dell’unità di tutte le forze del progresso sparse in tutto il mondo.

Oggi a 2 anni di distanza mi sono tornate in mente le parole del premier norvegese, che per definire i giovani impegnati in politica utilizzò l’espressione “la cosa più preziosa che c’è in democrazia”.
Ormai antistorico se pensiamo a come in Italia vengono visti oggi i giovani che fanno politica. A noi spesso capita di essere additati come giovani già in carriera, quando invece la nostra carrierà sarà forse passare da un contratto precario ad un altro o se va bene la stabilità con un salario molto più basso in proporzione di quello che fu dei nostri genitori, quando invece cerchiamo di dare una mano ad un partito, che a differenza di quelli dei nostri genitori, ormai non investe poco nell’organizzazione giovanile e nei centri studi. A volte persino ci capita di subire attacchi per il solo fatto di fare politica e non invece come dovrebbe essere, ricevere legittime critiche alle posizioni che esprimiamo.
Le maggiori critiche invece politiche ricevute dall’organizzazione giovanile del PD erano quelle di giornalisti e “giovani promesse” che ci accusavano di essere vecchi già a 20 anni, perché non ci eccitavamo davanti alla proposta di abolire l’articolo 18 o di riformare le pensioni in maniera brutale. Le nostre ragioni sono molto semplici, sappiamo dalla storia che la cancellazione di diritti non ha mai portato ad ampliamenti di altri diritti ma solo a diminuzioni complessive. Mentre invece ad alcuni ambienti di questo Paese farebbe comodo rappresentare i giovani come oppressi dai diritti dei padri e vogliosi di eliminare questi diritti definendoli “privilegi”. Purtroppo per loro siamo qui, nel pieno delle nostre forze, scomodi, sempre indisponibili ad essere strumentalizzati per questi fini.

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PIU’ POLITICA, MENO NANI SUI TRAMPOLI

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Solo il Partito Democratico poteva ritrovarsi a gestire contemporaneamente gli oneri del governo e il peso della sconfitta, ma se una nota positiva può emergere dalle macerie elettorali essa certamente è il ritorno della politica. Da una crisi di sistema si esce con più politica, con elaborazione e analisi, con lo studio: adesso ci dobbiamo spaccare la testa sui concetti, sulla visione della società, sull’idea di fondo. Quando sentiamo fare un ragionamento facile sullo scenario vittorioso che si sarebbe spalancato davanti a noi con una diversa candidatura alla Presidenza del Consiglio deve scattare il campanello di allarme, perché pensare che una tale banalizzazione del problema possa esserci utile per ripartire è forse il passo decisivo per affossarci definitivamente. Davanti al complesso, davanti al difficile è venuto il momento di rifuggire le semplificazioni e di prendere di petto la sconfitta.

Il primo problema, il più importante, è l’autoreferenzialità. Il Partito Democratico è un partito popolare, ce lo siamo raccontato per tutta la campagna elettorale e abbiamo issato la bandiera delle rivendicazioni dei più deboli. Tuttavia il corpo elettorale che vogliamo rappresentare ha sostanzialmente orientato i propri consensi su altre forze politiche, sedotto dai richiami populisti. Noi abbiamo conquistato dieci milioni di voti, una minoranza colta e consapevole, ceti medi o medio alti, borghesi, cittadini. A Milano, Roma, Genova, Napoli, Bologna e Torino abbiamo vinto le elezioni. Ma l’Italia, e Bersani a Bettola mentre osservava il bar all’angolo e la Chiesa in fondo alla piazza ce lo ricordava, è fatta di paesi e provincialità, e il Partito Democratico ha ottenuto risultati sconfortanti nei piccoli centri. La “società civile” dei convegni di Giustizia e Libertà ci ha votato ancora una volta, turandosi tutti i nasi di questo mondo, ma portando ancora acqua al mulino democratico. Se però pensavamo di fare breccia nella piccola Italia delusa dal mancato miracolo berlusconiano, allora prendiamo atto che abbiamo fallito l’obiettivo. Siamo ancora d’accordo solo ed esclusivamente con una minoranza, il che può essere dilettevole in un film di Nanni Moretti, ma non nelle urne elettorali.

Il secondo problema è la nostra intrinseca soddisfazione nella diversità. Siamo compiaciuti del nostro essere diversi, vittime della “questione morale” berlingueriana abbiamo coltivato con insistenza durante gli anni terribili del berlusconismo rampante il nostro bisogno di distinguerci. Tuttavia risultiamo enormemente antipatici, assolutamente lontani dalla realtà, dal famigerato e poco stuzzicante Paese reale. Pensavamo che non fosse un problema, chiedevamo di essere creduti piuttosto che di piacere, ma evidentemente non ci siamo riusciti, perché abbiamo confuso l’elettorato per tutta la campagna elettorale vagheggiando alleanze con il centro moderato di Monti mentre allo stesso tempo sposavamo una linea socialdemocratica in temi di welfare e lavoro. Come potevamo essere creduti, con questa incertezza di fondo? Bersani è un politico che ha ottenuto risultati e scalato il PD grazie al pragmatismo e alla concretezza, ma questi due valori non sono per niente diffusi nel Partito Democratico e abbiamo pagato a caro prezzo questa mancanza. Meno giaguari e più ammortizzatori sociali, la prossima volta.

Abbiamo poi pensato di aver vinto le elezioni ancora prima di averle fatte. Ho recentemente partecipato ad un convegno organizzato dai Giovani Democratici a Roma nel quale decine di associazioni, sindacati, movimenti e parti sociali lanciavano proposte e portavano punti di vista. Dopo due ore di interventi di questo tipo e dopo aver preso appunti con attenzione, Stefano Fassina ha risposto a queste istanze con umiltà, proponendo soluzioni concrete da attuare una volta al Governo. Io immagino un Partito Democratico nel quale sia questo il modello a prevalere, quello dell’umiltà, del mettersi al servizio della società con spirito di sacrificio (una parola importante, perché restituisce l’idea di politica fatta anche di sofferenza, di viaggi notturni, di fatica, di studio, di ascolto e che metta all’angolo i privilegi e il concetto di casta). Al Partito Democratico servono più persone con questo spirito e meno nani sui trampoli che imitino le movenze e la retorica di Massimo D’Alema.

L’ultimo pensiero è per Bersani. Porterà la croce della sconfitta, sarà per sempre additato come il grande fallito, il giocatore triste che non ha vinto mai e che ha attaccato le scarpe a qualche tipo di muro e adesso ride dentro a un Bar di Piacenza. Non penso che meriti questo, è stato un Segretario attento alle istanze di rinnovamento da un lato e al bisogno di rappresentatività di intere categorie sociali dimenticate e portate alla fame da vent’anni di politiche sociali neoliberiste. Ha perso le elezioni arrivando primo, la peggiore delle sconfitte possibili. Dobbiamo stringerci attorno a lui nei prossimi mesi, che saranno drammatici, e aiutarlo a gestire la transizione che sarà avviata con un nuovo congresso. Un congresso che dovrà essere serio, dovrà dare una linea chiarissima al Partito Democratico, una guida forte e rimettere al centro della scena politica i contenuti, per quanto la formula delle primarie accenda i riflettori sopratutto sulle persone e nonostante una parte consistente del Partito che continuerà a invocare soluzioni personalistiche alla crisi piuttosto che una riflessione di fondo.

A.T.

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IL GRANDE BALZO IN DIAGONALE PER SUPERARE LA SECONDA REPUBBLICA

caspar

“Scalare la politica senza essere miliardari” oggi non è molto semplice: la concorrenza dei paperoni si è molto accresciuta, ma soprattutto oggi è la montagna da conquistare che è scomparsa. Già, perché purtroppo in questa transizione trentennale è stata scavata dal’influenza di sondaggisti “sacerdoti della volontà popolare” incapaci di ipotizzare alcun cambiamento possibile, destrutturata dalla crisi dei partiti e dei corpi intermedi, e soprattutto erosa dal vuoto di un paese che sull’orlo del precipizio si ostina a ripetere i luoghi comuni e le idee fallite di questi anni. Manca la montagna, appunto.

Il Manuale del Giovane Turco – Come scalare la politica senza essere miliardari, di Francesco Cundari, giornalista de L’Unità, al di là della forma ironica e dei tanti paradossi, è un libro serissimo. Attraverso leggi e corollari, grafici cartesiani e curve iperboliche, schemi riassuntivi e battute taglienti, dimostra quanto questo ventennio di pensiero unico e partiti personali abbia fatto male non solo alla politica ma a tutto il paese. E se la volontà popolare è considerata solo in termini di seguaci sui social-network, se tocca alla legge elettorale e non ai votanti l’onere di stabilire il vincitore, se la fine corpi intermedi (partiti, associazioni, sindacati, parrocchie) è considerata irreversibile e non si vede in essi un argine alle insicurezze e alla solitudine, l’unica possibilità di cambiamento è non piegarsi allo status quo ma violare le regole del gioco.

E qui entra in scena il nostro protagonista: il Giovane Turco. Dopo aver spiegato agli “studiosi della wikipedia” l’origine e la varietà di utilizzo di questa etichetta, il Giovane Turco è descritto come “qualcuno che […] nel sistema che abbiamo descritto precedentemente ci è nato, vissuto, mosso i suoi primi passi”. E adesso è un po’ stanchino. L’establishment lo respinge, i media lo deridono, i più lo considerano un nostalgico di un epoca che non ha conosciuto. Ma forse è proprio l’ aver conosciuto questa epoca (nella quale “i mercati governano, i tecnici amministrano e i politici vanno in Tv”) a fargli cercare ardentemente un’alternativa.

Ecco allora il Grande Balzo in Diagonale che il Giovane Turco, non da solo perché la politica è azione collettiva e visione comune, si trova a dover compiere: dovrà prima esercitarsi, perché lo porterà a scontrarsi con i “padri nobili”, inamovibili nel ripetere il solito refrain per qualsiasi fatto, con le vecchie leadership che vanno avanti per inerzia, e con le “giovani promesse”, rapide nel cambiare le loro posizioni per essere sempre acclamate.

Ma in fondo è il manuale stesso di Cundari a essere il Grande Balzo in Diagonale della pubblicistica dell’arte della politica di questi anni: nessun consiglio su come organizzare il proprio staff, curare la propria immagine, intessere relazioni. Che manuale è mai questo? Semplicemente, per fare politica servono idee, le proprie e non quelle del ghost writer, serve avere una visione più che un account di twitter, parlare con le persone più che con l’agenzia di marketing, avere il coraggio di prendersi qualche fischio per mostrare che il Re è nudo non aspettare il proprio turno per tornare a fare, veramente, politica.

Pietro Virtuani

Pubblicato in "Egemonia culturale" non è una così brutta parola, Il liberismo non è di sinistra e ha i giorni contati, Il riformismo non è dire da sinistra cose di destra, La storia è finita, ne comincia un'altra, Sono un umanista neolaburista e ne vado fiero | Contrassegnato , , , , , , , , , , | Lascia un commento

Le mancate candidature e le scelte del popolo delle primarie PD

Una risposta alla polemica di Sarubbi contro le primarie e le scelte del nostro elettorato.

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Nei giorni del caos della formazione delle liste per il parlamento, come spesso accade in questi momenti, sono saltati all’occhio molti casi di incomprensioni ed errori. Ma di norma queste polemiche vengono tenute al riparo dall’agone mediatico anche da parte di chi quegli errori li subisce questo per due principali motivi: 1) a tutti i membri del partito giova la soluzione di questo genere di problemi; 2) a tutti i membri del partito giova che l’immagine dello stesso resti al riparo da polemiche esterne che poco giovano al raggiungimento dell’obbiettivo di cui al punto 1.

Ma come al solito questi momenti sono pane per i denti di chi vuole guadagnare dei titoli (o anche solo dei trafiletti) sui giornali ovvero, meglio ancora, una dichiarazione registrata buona per un servizio del TG.

Ma purtroppo bisogna anche ammettere che questi momenti sono pane per i denti di chi vuole guadagnare dei titoli (o anche solo dei trafiletti) sui giornali ovvero, meglio ancora, una dichiarazione registrata buona per un servizio del TG.

A questo riguardo come non essersi accorti dello straordinariocaso di Andrea Sarubbi. Brillante deputato democratico, romano eletto a Napoli, famoso ai più per il suo hashtag #opencamera, ma per alcuni soprattutto per le sue competenze ed il suo lavoro in merito ai problemi della cittadinanza e dell’immigrazione.

Egli, dopo aver condotto una spietata ed intransigente battaglia per Matteo Renzi senza risparmiarsi attacchi frontali al PD ed alla sua organizzazione, lamenta il fatto che il Partito (che non sente nemmeno come proprio http://www.andreasarubbi.it/?p=8465) con il meccanismo delle primarie per la scelta dei parlamentari lo ha di fatto estromesso da una possibile rielezione. Nella dichiarazione andata in onda su alcuni TG egli derubricava le primarie per i parlamentari ad una semplice macchinazione autoreferenziale dell’Apparato. Egli recitava:“Hanno fatto le primarie, le hanno vinte solo funzionari di partito, quasi tutti di sinistra”.

Sulla figura del “funzionario di partito” Sarubbi compie (immaginiamo) volutamente un errore sotto-categorizzando il ruolo del “dirigente” a “funzionario” per il solo fatto che teluni dirigenti svolgono a tempo pieno il loro ruolo e pertanto ricevono un compenso per questo. Quindi ci verrebbe da chiedere: a chi, secondo Sarubbi, dovrebbe essere affidato il compito di dirigere un partito: ex dirigenti in pensione? Figli di manager e grandi professionisti? Membri dell’alta borghesia in periodi di svago?

Infine con l’espressione “quasi tutti di sinistra” egli lamenta, con tutto l’elitarismo che vomitano le sue parole, un (presunto) eccessivo sbilanciamento a sinistra delle scelte del nostro elettorato, quasi che la sinistra sia vista come una colpa di cui scusarsi. Per rispondere a Sarubbi su questo punto ci permettiamo di utilizzare due espressioni del Presidente D’Alema: 1) il PD è nato per eliminare il trattino tra le parole “centro” e “sinistra”, non per eliminare la “sinistra”; 2) per votare alle primarie e far parte della grande allenza progressista non è necessario conoscere a memoria “bandiera rossa” ma rispettarla sì.

 

Lupo Rosso, ma non troppo rosso se no Sarubbi si arrabbia

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VERSO LA TERZA REPUBBLICA. LE STRAVAGANZE CHE ANCORA CI ASPETTANO (Cap. 1)

Ci avevano spiegato che il Governo dei Professori sarebbe stato lo spartiacque. Il Rappel a l’ordre dopo le stravaganze e gli eccessi della Seconda Repubblica. Dopo di esso, basta personalismo, basta schiamazzi, basta estemporaneità, solo una politica seria e autorevole per l’interesse generale, da destra a sinistra, per essere rispettati in Europa e avere finalmente un paese normale.

primo

Eppure, se ci presentiamo ai banchi di partenza della prima elezione della Terza Repubblica, le cose non sembrano andare proprio proprio così. Al di là della sopracitata impostazione e dei numerosi punti discutibili che propone, molto folklore affolla ancora la proposta elettorale. Andiamo a vedere meglio.

Il “Misterioso Grande Centro”

Spettro costante della Seconda Repubblica, sempre evocato e mai apparso davvero, per via del bipolarismo muscolare (dobbiamo difendere il bipolarismo!/Il bipolarismo ha fallito) e delle leggi elettorali maggioritarie o con il premio di maggioranza (non sia mai pensare che forse non è apparso perché non esisteva…), forse questa volta arriva davvero, non sotto forma di un movimento, di un partito, bensì di una “Agenda”. L’Agenda Monti. In sostegno di questa moleskine abbiamo varie curiosità, la parola Partito è tabù, la società civile è costantemente evocata ma compare solo se la tassazione irpef supera il 43%, spazi di democrazia interna non enfatizzati, perché siamo movimenti, non partiti del Novecento, e il capo carismatico fa il padre nobile ma preferisce tenersi così tanto al riparo dalla zuffa che nemmeno vi manda qualcuno al suo posto. Non si capisce obiettivamente chi sia il candidato, ma non importa, non siamo più nel 2010 in cui l’unico problema era capire se il Pd faceva le primarie o sosteneva Vendola, Passera, Profumo o chi altri alla premiership che in Italia non c’è.

logo italia futura(9) “Non siamo un Partito, siamo una Fondazione culturale che vuole parlare dell’Italia”. Purtroppo però si parla essenzialmente di cosa farà Montezemolo. Si candida o non si candida? Che cosa fa? I Poteri forti avranno un nuovo ricco difensore dopo il tracollo del cavaliere? In due anni la risposta ancora non è arrivata. Nel frattempo fanno convegni e radicano il Part… ops, la Fondazione, sul territorio. Nome che non dà fastidio a nessuno, progetto che si gonfia e sgonfia a seconda dello spazio che i principali quotidiani gli dedicano nelle pagine interne.

fermare_il_declino_fare Altro movimento, più giovane, sempre di Moderati, sempre di Liberali. Si recupera ancora il rosso, colore in disuso dal Congresso DS di Firenze del 2007, per mostrare quanto si è oltre il ‘900 e quindi non ci siano preconcetti sul colore dei nemici di classe. “Fermare il Declino” comunica già il pragmatismo dei liberali, contrapposto all’idealismo della sinistra politicante che sogna improbabili rivoluzioni: qui non ci facciamo illusioni, non ci proponiamo di invertire la rotta, ma semplicemente di arrestare la decadenza, salvare il salvabile, quel poco che ancora rimane… Meno montiani degli altri, sembrano oramai destinati ad altri lidi. Li mettiamo qui perché siamo rimasti al XX secolo.

Per il resto, un po’ di attenzione nel mandare tra di voi le mail ragazzi! Che poi litigate…

Logo Logo_Futuro_e_Libertà_per_l'Italia Improbabili alleati con Berlusconi, improbabili soci della critica al suo operato mentre lo sostenevano, in tempi diversi se ne sono andati. Vivacchiano entrambi appesi alla popolarità dei loro leader (in verità oramai in fase di logoramento, dopo molti anni), ostentati nel simbolo che soprattutto nel caso di FLI è solo di contorno alle quattro lettere del cognome: per il resto, persino l’abbinamento cromatico è volutamente pessimo in modo da non distogliere lo sguardo dalle lettere. Per l’UDC è diverso: il segretario è Cesa, il presidente è Buttiglione, l’uomo immagine è Pierferdy. Cosa Bianca? Destra normale ed europea? I voti latitano, ma il Professor Monti può essere un buon viatico per farsi un altro giro, con la zampata giusta qualche soddisfazione istituzionale ce la si può togliere. Si vivacchia, si naviga a vista legislatura per legislatura, poi chissà…

scelta-civica_con-monti provecolore 5 Oggi se non hai forti pressioni dalla Società Civile per candidarti non sei nessuno. Ed eccoci qua, c’è tutto: il richiamo civico, l’Italia e soprattutto il nome del capo a caratteri cubitali. Una piccola preposizione semplice suggerisce un piccolo distacco, perché Monti è un mese che medita e il Nirvana ancora non gli ha detto cosa fare. Di sicuro silenziare le “ali estreme”, perché nel silenzio si sa, non c’è disturbo, si medita meglio, e si riesce pure a dormire. Ma poi ce lo vogliamo dire, quanto è brutto ‘sto simbolo? Ok la sobrietà, ma è oggettivamente inguardabile; poi sembrano le Frecce Tricolori dai! Comunque p sono i produttori dell’agenda che piace al PPE, e finalmente l’establishment italiano lascia il Rotary e i Fondi sovrani del Qatar (non saremo mai abbastanza grati a Stefano Fassina per quella definizione) per scendere nell’agone. A difesa degli interessi mai toccati, e naturalmente per i giovani (della Bocconi) e i meritevoli (della Bocconi).

Alexander Verry

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DUE COSE SUI MODERATI E SUL CIVISMO RIVOLUZIONARIO

Che cosa è la società civile? Chi sono i moderati? Sono due forze davvero rivoluzionarie come alcuni dei loro presunti megafoni affermano adesso? 

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Ci sono delle parole che hanno recentemente preso il sopravvento nel dibattito politico italiano, senza però essere comprese davvero nella loro più intima natura.

La società civile per esempio. Società è tutto quello che ci circonda, il mondo, i suoi protagonisti e le sue dinamiche, nessuno escluso. Aggiungendo però l’aggettivo civile, si vuole indicare una particolare fetta della Società intesa generalmente, ovvero quella fetta che sta (perché può) tra l’individuo singolo e gli organi amministrativi/politici dello Stato.

Hegel dava alla società civile il ruolo di negazione, per poi potenziare l’affermazione precedente (l’individuo) in un contesto collettivo come lo Stato (negazione quindi della negazione e riaffermazione dell’affermazione primaria potenziata). Il famoso filosofo dava alla società civile un ruolo di disordine e conflitto, da risolversi nello Stato.

Alexis de Tocqueville fu il sociologo che più si occupò di società civile, definendola come insieme di diverse associazioni di stampo non politico. Dunque la non politica come carattere distintivo. Alexis lodava la società americana dove la società civile era particolarmente sviluppata perché essa consentiva agli individui di interagire liberamente, di svilupparsi e innovarsi.

Già Max Weber aveva definito la democrazia americana come “un intreccio di gruppi sociali esclusivi, ma volontaristici” sottolineando come il sistema americano si sia sviluppato da radici massoniche. Se ne rimani fuori, sei un nulla vivente. Col tempo ci siamo ritrovati in un mondo che riduce all’individualismo nel campo dei valori, ma che azzera l’individuo nei rapporti sociali, rendendolo più debole e squalificandolo, portandolo per forza a doversi identificare in un qualche gruppo civile.

La società civile moderna nasce negli anni ‘60-‘70 in particolar modo nell’America Latina e nell’Europa dell’est: cittadini che si organizzano per migliorare le loro condizioni di vita, in molti casi riuscendoci con diverse tecniche di lotta.

Contemporaneamente essa diventa globale, accrescendo la capacità dei gruppi non politici di influenzare la politica, come per esempio dimostrano svariate ONG oggi in azione.

Va però chiarito che la società civile influenza e non si sostituisce alla politica. Se vi si sostituisce, per carattere fisiologico, porterà avanti interessi particolari e non generali come dovrebbero fare i partiti, che dalla società civile e dagli individui sono composti e controllati.

Da chi è composta quindi la società civile? O meglio da quali ceti popolari?

Per la gran parte dalla borghesia, alta o piccola. Non dai ceti più abbienti, che hanno altri modi per influenzare il mondo e farsi sentire né dai ceti più poveri, che non ne riconoscono i funzionamenti e gli scopi, avendone altri ben più importanti.

La società civile può realizzare una qualche forma di rivoluzione? Dunque, essa può essere soggetta a rivoluzioni culturali partite da alcuni gruppi che la costituiscono o da gruppi puramente politici ma non ne sarà mai uniformemente influenzata e non sarà mai lei a costituirla.

I rivoluzionari per eccellenza, Karl Marx e Vladimir Lenin, consideravano la rivoluzione come un modo attraverso il quale i poveri prendono il potere. Ma come dicevamo prima i poveri non sono parte della società civile. Né la rivoluzione è un fenomeno di maggioranza, ma sempre di una minoranza “illuminata”. Ecco così smontato il paradigma abnorme di rivoluzione civile con cui il magistrato Ingroia si candida alla guida dell’Italia, sostenuto da partiti che dovrebbero vigilare sugli insegnamenti di Marx e Lenin.

Come se non bastasse la rivoluzione è una cosa da moderati.

Questa è un’altra parola che va smontata completamente. Chi è il moderato? Forse il conservatore? Tuttavia la chiusura totale e la difesa di determinate tradizioni ha ben poco di moderato.

Moderato è essere riformista? Cioè riformare ma pianino? In che direzione riformare?

In questa parola non c’è nessuna volontà politica, solo una semplice tendenza psicologica.

Gandhi aveva l’animo più moderato che il pianeta abbia mai visto, sebbene lo portasse su posizioni massimaliste e radicali!

I moderati comunque stanno al centro. Al di là di destra e sinistra, con le riforme. Ma queste riforme in che direzione vanno? A destra o a sinistra? Carattere conservatore o progressista? Et voilà il centro è centrodestra o centrosinistra, più semplicemente destra e sinistra. Separati da principi ispiratori diversi, che giustamente animano una dialettica democratica che conduce al progresso la società tutta.

Per quanto riguarda la situazione specifica italiana il centro è centrodestra, con l’esclusione del centro democratico di Tabacci e Donadi.

Quindi, caro Samorì, come fanno i moderati italiani a essere in rivoluzione, magari seguendo l’agenda Monti che mette al centro la società civile?

Potremmo concludere rilanciando l’appello di Claudio Sardo dalle colonne de L’Unità “più Società, meno agende!”.

 

Vladimir Gobetti, the libsoc

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L’Apparato necessario. Difendere l’apparato è difendere la politica per i più deboli

Ogni qual volta nel Partito Democratico si è aperta una sfida interna è sempre entrato abbastanza prepotentemente nel dibattito il tema dell’Apparato. Un apparato che è sempre stato dipinto come il nemico da abbattere e il freno all’allargamento degli spazi di democrazia e di partecipazione. Ci ricordiamo nel congresso 2009 dalle colonne di Repubblica gli attacchi a Bersani ed al presunto apparato del Partito che lo sosteneva, così come negli scorsi mesi con le stesse parole e gli stessi concetti si sono espressi molti esponenti che sostenevano Matteo Renzi. Un fantomatico apparato che sarebbe da abbattere per restituire la democrazia ai cittadini.

 

Ma sappiamo come erano i partiti prima della costituzione degli apparati? Sappiamo cosa sono stati gli apparati negli anni d’oro dei partiti e cosa sono oggi?

 

La costituzione degli apparati avviene con la massificazione della democrazia e quindi della politica, ovvero nel compimento della transizione tra i partiti dei notabili (elitari) e partiti di massa (popolari). A differenza di quanto avveniva nella fase precedente, con la strutturazione degli apparati tutti i cittadini e soprattutto le classi sociali più deboli hanno potuto cominciare a partecipare alla politica e all’impegno nella Cosa pubblica. Le grandi strutture hanno dato negli anni la possibilità a chi non ne avrebbe mai avuto le possibilità di esprimere la propria voce collettiva, di unificare le singole battaglie e di cambiare il mondo. Questo fenomeno si è sviluppato soprattutto nell’Europa continentale ed è stato tipico, soprattutto nella sua prima fase, delle Socialdemocrazie che poi sono quelle forze grazie alle quali oggi noi possiamo godere di diritti sociali (pensioni, diritti sindacali) e di servizi pubblici essenziali (istruzione e sanità pubbliche), in sostanza tutto ciò che la politica ha fatto per i più deboli.

Per capire meglio questo aspetto è necessaria una piccola panoramica di come era la situazione politico-organizzativa prima della costituzione degli apparati. I partiti cosiddetti dei notabili erano formazioni politiche che nascevano e morivano in una campagna elettorale, il loro unico scopo era l’elezione del rappresentante il quale creava a sue spese il comitato elettorale e sfruttando la sua fama riusciva a farsi eleggere nel suo collegio, conquistava un seggio grazie al quale faceva gli interessi particolari propri e dei suoi elettori, senza un collante duraturo durante il suo mandato egli era totalmente libero di svolgere il proprio ruolo nella maniera che ritenesse più opportuna. Capite bene che con questo sistema solo le persone che già possiedono potere possono esercitarsi in questa attività. E quindi non vi sarebbe mai stata la possibilità della redistribuzione del potere che dovrebbe essere la priorità della democrazia (e come scrive Matteo Orfini nel suo libro, “con le nostre parole”, la ragion d’essere della sinistra).

Da ciò non è difficile capire il perché, come afferma Michele Prospero (nel libro “il partito politico”), la mediazione tra Stato e società assicurata dai partiti ben strutturati, e in grado di istituzionalizzare i momenti di conflitto sociale, era la bestia nera degli studiosi conservatori che rivendicavano una snella organizzazione del potere inaccessibile alla mire espansionistiche degli apparati. Da questo estratto si possono cogliere le straordinarie funzioni del partito e del suo apparato, l’istituzionalizzazione dei conflitti che è l’unico modo con cui i deboli possono cambiare le cose e la mediazione tra stato e società che assicura un’unità di intenti ed una cooperazione tra essi.

Non è un caso quindi che gli studiosi conservatori e l’alta borghesia vedano con preoccupazione l’esistenza degli apparati, in quanto permettono ad altri oltre a loro di potersi occupare della cosa pubblica e di poter influenzare le scelte dello Stato. Pertanto ogni progressista (o auto-presunto tale) quando inveisce populisticamente contro l’Apparato dovrebbe ricordarsi che l’apparato ed il professionismo della politica sono i più acerrimi nemici della conservazione e dei potenti, che invece hanno interessa a far tornare ad essere la politica un semplice passatempo per l’alta borghesia, inaccessibile a chi proviene da altri strati sociali ed è portatore di diversi interessi.

 

Ma ora veniamo all’apparato del presente e confrontiamolo con quello del passato. La SPD nel 1912 aveva circa un milione di tesserati e poteva contare su 4100 funzionari e più di 11000 impiegati, non è difficile pensare che il PCI potesse essere più o meno su quei numeri li. Oggi il PD può contare su circa 200 funzionari a Roma e mediamente uno, uno e mezzo in ogni federazione, aggiungeteci i massimi dirigenti che non sono parlamentari ed è facilissimo capire come questa retorica contro l’apparato non sia nulla di più che un esercizio retorico per qualche giovane promessa che cerca di costruirsi una carriera all’interno dell’apparato parlandone male (come magistralmente espresso nel libro “manuale del Giovane Turco” di Francesco Cundari). Ma a questa mancanza di personale a minimamente stipendiato hanno sopperito centinaia di migliaia di militanti che da un estremo all’altro della penisola si rimboccano le maniche ogni settimana e chi anche ogni giorno per rendere possibile l’esistenza ancora di un partito che conservi gelosamente l’ambizione di essere corpo intermedio durante tutto l’arco dell’anno e di forgiare identità collettive. Questo apparato di donne e uomini che hanno deciso di regalare parte del proprio tempo ad una passione politica dovrebbe essere ringraziato ogni giorno senza se e senza ma da tutti quelli che hanno l’ambizione di dirigere il PD. Grazie a questo apparato oggi è possibile parlare del successo delle primarie del 25 Novembre e del 2 Dicembre, grazie a questo apparato oggi il PD potrà essere diverso e far scegliere ai cittadini i propri deputati.

 

Pertanto l’attento lettore non potrà che aver notato la contro-dimostrazione del primo assunto: “l’apparato è un freno alla democrazia e alla partecipazione” falso, solo grazie all’apparato può essere garantita la democrazia cioè la redistribuzione del potere dai più forti ai più deboli e solo grazie all’apparato è possibile ampliare gli spazi di partecipazione.

 

Lupo Rosso

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AMBROSOLI CONTRO LA KASTA: NOI STIAMO CON BARCA

Giovedì 15 novembre, due interviste molto diverse sui quotidiani impegnano la sinistra a una riflessione: su La Stampa il Ministro Barca riflette sulle proteste e sugli scontri di ieri; sul Corriere, l’avvocato Ambrosoli spiega la sua candidatura alle misteriose primarie civiche indette per scegliere un candidato alla Regione Lombardia.

Gli operai della Val Brembana si preparano a prendere casa in Via Senato per far parte del progetto civico

Il Ministro Barca viene da giorni movimentati: la fuga in elicottero dagli operai della Sulcis che protestavano dopo la firma del protocollo di intesa. Ma quando gli viene chiesto della manifestazione di ieri (indetta dalla confederazione europea dei sindacati) contro l’austerità il Ministro non si tira indietro e affonda il dito nella piaga: “L’anarchismo della protesta”, dice “responsabilizza i partiti”, perché denuncia “la totale assenza nei territori”.

La scomparsa dei corpi intermedi nei territori, dai famosi luoghi del conflitto, lascia il campo libero al degenerare dell’anarchismo della piazza, alla protesta cieca e frustrata di chi ormai ha sempre più perso le speranze e si rassegna alla sterile ribellione. I propri problemi non trovano più una casa comune in cui essere condivisi, affrontati e (possibilmente) risolti, semplicemente tanti individui si rassegnano a sfogare la propria disperazione. “La soluzione del disagio che attraversa la società, e che si manifesta in episodi preoccupanti come quelli di ieri, passa inevitabilmente attraverso un recupero serio del ruolo dei Partiti”. Ministro Barca.

 

Sul Corriere toni diversi usa l’avvocato Ambrosoli. Fresco di candidatura, dopo aver fatto pubblica rinuncia, rimangiata per “le innumerevoli mail e messaggi di società civile” (non ka$ta!!!1!1!!) che gli chiedevano di farlo, l’avvocato vuole subito sgombrare ogni dubbio. Corre “perché i partiti hanno fatto indietro”, rivendica il non avere tessere in tasca a differenza dell’avversario Albertini, persino il nome delle primarie non va bene, perché non saranno quelle dei partiti ma quelle civiche.

La povertà dell’orizzonte culturale è sconcertante. Tutti gli usurati cliché dell’antipolitica berlusconiana e grillina si ritrovano in un cortocircuito per cui i partiti sono menzionati solo per essere vincolati al programma, il legame possibile con il mondo dei partiti è solo quello delle amministrazioni locali, Enrico Letta diventa colui che in televisione ha marcato la sua discesa in campo come una richiesta dei partiti (quindi inizialmente rifiutata), partiti quelli della opacità e delle parentopoli, tutti in un unico calderone naturalmente… Fa sorridere il giornalista che chiedere “Ma i partiti la mettono così a disagio?” e la tirata ricomincia, senza alcuna distinzione e attribuzione di specifiche responsabilità.

Ambrosoli con queste premesse potrebbe candidarsi benissimo con il centrodestra: i Partiti fanno tutti schifo, la proposta è civica e la politica può dare una mano solo attraverso alcune virtuose esperienze delle amministrazioni locali. Cosa c’è di caratterizzante per la sinistra? Perché la sinistra? Nessuna distinzione, nessun riconoscimento. Nessuna differenza per Ambrosoli.

Su questo, il trionfo della società civile, quella che ha davvero fatto opposizione a Formigoni in questi anni, chiediamo? Forse bisognerà spiegargli che la Lombardia non è la Zona 1 di Milano. Non pretendiamo di partire dalle valli e dai campi, ma forse già andare oltre la circonvalla e le tangenziali gli sarebbe utile. La borghesia illuminata di Corso Venezia farà i banchetti in valle cavallina e aprirà i seggi lungo i paesini che si snodano nella strada che va da Milano a Cremona?

Mentre gli altri partiti della coalizione tacciono, il Partito Democratico si deve interrogare. Se gli altri, minuscoli e leaderistici alleati, hanno meno da dire, come si pone un Partito che dopo l’apertura delle primarie interroga la propria gente su quale modello presentare alle politiche, se il veteroleaderismo mediatico degli ultimi anni o un progetto collettivo e radicato nella società, incarnato dalla figura del Segretario Bersani? E perché in Lombardia si sceglie invece l’opposto, ossia l’appoggio a una candidatura che ha come prima preoccupazione non quella di attaccare il putrefatto sistema di potere ciellino e leghista lombardo, bensì smarcarsi da quei partiti che lo vogliono sostenere? E che per farlo non trova di meglio che mortificare le risorse che invece andrebbero galvanizzate per vincere la sfida nelle diversissime realtà della più grande regione d’Italia?

La fiducia nel Partito è una cosa bella. Si chiede di adeguarsi anche se non si capisce? Va bene, ma almeno l’orizzonte lo si vorrebbe vedere. Ma qui non c’è orizzonte; non c’è discussione; non c’è entusiasmo. Non c’è partecipazione. Non c’è sinistra. Non c’è niente. C’è Ambrosoli, però.

 

Alexander Verry

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